di Paolo De Nardis

Anche le giornate funestate dal maltempo e dalla pioggia possono regalare raggi di sole. Il primo sguardo alle notizie della mattina di un mercoledì di fine ottobre ci ha riempito di gioia: Asia Bibi, cristiana del Pakistan, madre di quattro figli, da otto anni nella morsa della prigione del suo Paese, con la pena capitale pendente sul suo capo, è stata riconosciuta innocente dalla Corte Suprema pakistana.
La sua vicenda, seguita purtroppo con un’attenzione deficitaria dalla stampa italiana (al netto di «Avvenire» – che a lei dedicò una incessante campagna di sensibilizzazione – e dell’«Osservatore Romano»), da subito assunse sembianze kafkiane, riconducibili alle persecuzioni subite ogni giorno dalle minoranze cristiane in molti Paesi afro-asiatici. Accusata di blasfemia da una donna – per aver avuto l’ardire di dissetarsi dalle fatiche del lavoro nei campi presso una fontana “vietata” ai non musulmani – Asia Bibi fu arrestata e sottoposta a un giudizio sommario e terribile: condanna a morte. Perso il ricorso presso la Corte di Lahore, ottenne la sospensione della pena nel momento in cui la Corte suprema del Pakistan accettò, in seguito a una mobilitazione internazionale, di valutare il suo caso.
Anche il nostro Istituto, ci sentiamo di dire, fece la sua piccola parte, conferendo ad Asia Bibi nel 2014 – in concomitanza con uno dei passaggi più difficili della sua vicenda – il Riconoscimento speciale per la Libertà Religiosa all’interno della sesta edizione del Premio Nazionale sui Diritti Umani, dedicato alla memoria di Maria Rita Saulle. All’epoca fu Marco Tarquinio, direttore di «Avvenire», a ritirare il riconoscimento, nella speranza che un giorno potesse essere consegnato proprio ad Asia Bibi. Sembrava, all’epoca, un sogno impossibile ma – per riprendere un noto motto lapiriano – “spes contra spem”: l’Istituto, con in testa l’amico Antonio Iodice (che di quel riconoscimento fu l’ispiratore), non ha mai smesso di “osare l’inosabile”. Asia sarà liberata, ma il difficile, paradossalmente, inizia proprio adesso: i fondamentalisti islamici, che non più tardi dello scorso 12 ottobre manifestarono a migliaia per le strade di Lahore, spinti dal partito islamista Tehreek-e-Labbaik, per chiedere la conferma della pena, minacciano rappresaglie e “giustizia” sommaria.
Il difficile continua adesso, per tutte quelle donne e quegli uomini che sono ancora vittime di persecuzione religiosa.
Intanto qui, però, è spuntato il sole.