Per conoscere il grado di civiltà di un popolo, Mario Pagano invitava a leggerne il codice penale, al fine di verificare se e come quel popolo riconoscesse e garantisse i diritti degli inquisiti. Gli studi giuridici di Mario Pagano privilegiavano i profili criminalistici, se fosse stato un tributarista avrebbe forse suggerito di sfogliare il codice tributario per verificare se e come un popolo riconosca i diritti dei contribuenti e come contrasti l’evasione fiscale.
La questione fiscale offre la materia prima per costruire la giustizia sociale. Lo sapeva bene Giacomo Matteotti, il quale, come è stato scritto di recente, vi trovò «il terreno ideale e la via per quella equità, quella uguaglianza, quella parità di trattamento di cui sentiva l’assoluta urgenza». Al punto da abbandonare gli studi di diritto penale, il suo primo amore, per dedicarsi a quelli della fiscalità1.
Non tutti i popoli, però, hanno un codice tributario. Anzi sono pochi ad averlo: gli Stati hanno preferito avere mano libera nella attività di reperimento delle risorse essenziali per la loro vita, potendo contare (è un mio sospetto) su una legislazione frammentaria e asistematica.
Il codice tributario non c’è nemmeno in Italia, ma il governo si è impegnato ad adottarlo nel giro di qualche anno. Il Laboratorio fiscale dell’Istituto S.Pio V intende seguire il percorso che dovrebbe portare alla codificazione, con attività di divulgazione, di promozione della ricerca, di analisi critica e di proposte. È un percorso destinato a segnare la nostra civiltà fiscale, al quale l’Istituto sente il dovere di partecipare.
(A.M.)
1 V. F. Tundo, La riforma tributaria. Il metodo Matteotti, Bologna 2024, pp. 7 e 8.
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