Come ha recentemente ricordato un volume curato da Caterina Cittadino e Stefano Sepe (L’Europa in Comune, Editrice Apes, 2017), basato su una ricerca empirica che ha evidenziato opportunità e limiti nel rapporto tra città italiane e Unione Europea, la dimensione urbana è destinata a diventare l’elemento caratterizzante del paesaggio – fisico e sociale – del Vecchio continente: nel 2020 si prevede che l’80% della popolazione degli Stati membri risiederà in città, come già oggi avviene per la metà degli abitanti di tutto il pianeta. In realtà, una tendenza del genere non nasce oggi: dal secondo dopoguerra in poi il contesto urbano ha progressivamente assunto il ruolo di motore della crescita economica e dell’innovazione tecnologica. Progresso, velocità, servizi e scambi hanno caratterizzato l’evoluzione della vecchia urbs, con un ritmo impensabile rispetto a quanto accaduto ai precedenti insediamenti umani, tanto da porre all’osservatore qualche pertinente domanda: esiste una linea di continuità tra i villaggi africani e le metropoli contemporanee, tra i tolou dell’antica Cina – che l’Unesco ha posto sotto la propria tutela – e le luci di Las Vegas, tra l’ordine geometrico del Comune medievale italiano e il caotico agglomerato di Città del Messico?
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