Il Focus del terzo numero della «Rivista di Studi Politici» è affidato alla scottante tematica della comunicazione politica, alternando – come nostro costume redazionale – contributi teorici ad altri empirici, riferiti a casi studio che hanno recentemente infiammato l’opinione pubblica. Ernesto Preziosi offre al lettore un’interessante e originale prospettiva in base alla quale la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi è considerata solamente un epifenomeno – e non la principale causa – della personalizzazione della politica che affligge il nostro Paese da diversi decenni. A monte, infatti, bisogna rintracciare l’inizio di una stagione caratterizzata dalla crisi della democrazia rappresentativa, malamente tamponata dalla ricerca del “leader a tutti i costi” e del rapporto diretto con i cittadini/ elettori. I mezzi di comunicazione di massa si innestano su un contesto del genere, indirizzando «il gradimento popolare verso punti di riferimento non politici»: si iniziò con la tragedia di Vermicino e la diretta televisiva del povero Alfredino caduto nel pozzo (giugno 1981), si continuò con l’esaltazione della vittoria calcistica nei Mondiali del 1982, per poi continuare alternando cronaca nera e soft news, il tutto all’insegna di una comunicazione che Preziosi definisce “seduttiva”, all’interno della quale si cala il fenomeno-Berlusconi. In quanto “esterno” ma non certo “estraneo” all’agone politico, il fondatore di Forza Italia si trovava particolarmente a suo agio in una stagione politica e televisiva che rifiutava “le ideologie e i vasti orizzonti ideali” per abbracciare, al contrario, la retorica di un benessere diffuso e di una felicità generalizzata, per quanto di plastica. Da qui al populismo il passo è breve e transita attraverso l’americanizzazione della politica italiana, per poi giungere alle invettive, agli sproloqui e alle iniziative di piazza chiamate attraverso la parola d’ordine di un insulto (il “Vaffa… day” di Grillo), ideale e triste suggello di un “primo tempo” dell’Italia repubblicana che forse si era chiuso ben prima, alla fine degli anni Settanta dello scorso secolo, ma non ce ne eravamo accorti. La disaffezione che i cittadini italiani mostrano di avere, almeno “carsicamente”, nei confronti del sistema politico è oggetto anche dell’analisi di Stefano Sepe, sullo sfondo della cosiddetta “democrazia del leader” e dell’ossessiva – da parte di questi – ricerca di consenso, spesso mediante strumenti comunicativi deputati a ciò, ma totalmente sganciati da una progettualità politica. Ci dovremmo forse stupire, quindi, dell’estrema caducità degli attuali leader italiani, incapaci di reiterare le proprie “narrazioni vincenti” quando variabili nazionali o estere mutano il quadro politico? I media come collante sociale non riescono a nobilitare l’ambiguità – «in larga misura obbligata» – dei loro effetti, così come il falso livellamento, promesso dalla Rete, tra il discorso del Re e un’incerta opinione dell’uomo della strada non può assicurare quella sintesi tra idee diverse che è l’obiettivo ultimo della pratica democratica. Si prenda il caso statunitense, oggi sulla cresta dell’onda. Il punto, a nostro avviso, non consiste nello stabilire le vere o solo presunte ingerenze russe nelle elezioni Usa, quanto nell’approfondire la strategia comunicativa di Donald Trump, risultata decisiva per la vittoria elettorale di un candidato addirittura inviso a buona parte del suo stesso partito. Il contributo di Eugenio Camodeo, come pure quello di Paolo De Nardis e Luca Alteri, sottolinea come un sapiente utilizzo dei vecchi e dei nuovi media abbia caratterizzato la chiave di volta non solo per il sorprendente trionfo di colui che Giuliano Ferrara definisce “l’Impostore arancione”, ma anche per la precedente – duplice e non meno inattesa – vittoria di Obama: entrambi hanno saputo trovare il giusto bilanciamento tra le istanze di cambiamento espresse da una fetta consistente dell’elettorato e la canalizzazione di tale malcontento in favore di un candidato outsider. Nulla – neanche la trovata più naïf e apparentemente ingenua – viene prodotto casualmente, ma è il risultato di precise e costose strategie comunicative, irrorate da una grande quantità di dollari. Alla vigilia di una campagna elettorale che si annuncia, per il nostro Paese, lunga e “tempestosa”, la questione della legge elettorale continua a essere il perno delle reciproche invettive tra gli opposti schieramenti. “È così in ogni Paese”, si è tentati di affermare, ma altrove – dobbiamo ammetterlo – si vola più in alto e la dialettica politica quotidiana consente riflessioni generalizzabili e non prive di un respiro teorico. Ne costituisce un esempio il contributo di Giuliano Bianchi di Castelbianco, il quale – partendo dalle elezioni politiche e dal sistema elettorale nella Repubblica di San Marino – propone al lettore un più ampio ragionamento sulla applicabilità pratica dei modelli politologici e, in generale, delle teorizzazioni proprie delle scienze sociali.

 

 

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