di Antonio Esposito
Un pomeriggio d’inverno, tra i seminterrati dell’ex manicomio civile di Aversa, come epifania, si danno allo sguardo centinaia di scarpe accatastate, impolverate, rotte, rosicate dai topi, spesso spaiate. Cumuli di scarpe senza lacci, pezzi di storie smarrite, testimonianza di sentieri interrotti e cammini traditi, abbandonati in quell’Altrove, ‘le reali case dei matti’, spazio di potere, di esclusione, di dolore.
Da quell’incontro, si è attraversato oltre un secolo di storia italiana, indagando le pratiche discorsive, le normative, le tecniche che hanno definito il discorso psichiatrico in Italia: dalle previsioni d’internamento contenute nella legge del 1904 al superamento dei manicomi determinato dalla 180 del 1978, passando attraverso le esperienze di psichiatria critica e l’utopia della realtà basagliana e fino all’attuale organizzazione dei Servizi territoriali per la salute mentale. Queste pagine si interrogano su un futuro che è sempre già alle nostre spalle, storicizzando le questioni che oggi sono poste, a fronte dello smantellamento del welfare, dal TSO, dalla contenzione meccanica e farmacologica, dalle Rems, dalle nuove forme di manicomializzazione, dalla psichiatrizzazione manualistica della vita quotidiana, dalle ri-categorizzazioni securitarie dei ‘soggetti pericolosi’.
Non ci sono risposte, solo il tentativo di riflettere su problematiche che intersecano i destini biografici di milioni di persone, le loro sofferenze e solitudini ma anche le istituzioni, i saperi, i dispositivi coinvolti nella loro gestione; convinti che sia possibile curare, cioè prendersi cura della sofferenza psichica ma consapevoli che esiste un fascino sempre meno discreto del manicomio.
Scrive Assunta Signorelli nel prezioso saggio che apre questo libro: “ Se, invece di progettare e costruire cronicari sempre più grandi, eufemisticamente chiamati residenze con aggettivi più diversi e fantasiosi, ci si soffermasse sulla necessità per la persona malata di mantenere un legame con il proprio passato, la propria esperienza sociale e relazionale, di vivere la malattia come un passaggio, certamente doloroso, della propria vita […], non solo le forme e i luoghi del trattamento sarebbero a dimensione umana, ma la cronicità stessa scomparirebbe, trasformandosi l’esperienza di malattia e la sua evoluzione, in una forma dell’esistere, visto che la normalità, intesa nel senso nobile del termine, altro non è se non un continuo oscillare fra salute e malattia, entrambe strettamente collegate all’ambiente socioculturale nel quale la persona vive”.
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